Hayet e i grandi velieri

14597384640_34524cafe4_oNella stesura di un romanzo, la documentazione è fondamentale, soprattutto se si scrive di ciò che non si conosce.

Talvolta informarsi di un certo argomento fino a possederne una buona padronanza può rivelarsi un lavoro lungo e noioso che, tuttavia, si fa volentieri in nome della scrittura.
O almeno per me è così.

Ho letto saggi di una noia mortale che, nonostante tutto, oltre a costituire un pesante macigno sulla mia scrivania, si sono rivelati un’ottima fonte di informazione.
In mezzo a tutti questi testi, tra l’altro, mi è anche capitato di scoprire di avere tra le mani dei piccoli capolavori.
A questo proposito, oggi voglio parlarvi di “Vita e costumi a bordo dei grandi velieri”, di Armand Hayet.

Il titolo non mi aveva catturata particolarmente e le recensioni in internet scarseggiavano.
D’altra parte non avevo trovato testi migliori e il circuito bibliotecario della Brianza lo aveva in catalogo, così l’ho preso in prestito, pensando “questo mi tocca”.

Non sono mai stata così felice di essermi sbagliata.

Il libro è una raccolta di memorie di Armand Hayet, capitano di lungo corso, il cui obiettivo è quello di sfatare i falsi miti sulla navigazione a bordo dei grandi velieri e riabilitare le figure dei marinai, talvolta dipinti come zotici ubriaconi e violenti il cui unico pensiero fisso è l’ammutinamento.
Hayet si rivolge ai “terraioli”, soprattutto se sceneggiatori o scrittori, con un misto di sarcasmo e ironia, mettendo in luce i numerosi cliché relativi ai marinai che popolano libri e film e che, come spesso accade, non hanno corrispondenze con la realtà.
L’intero saggio è pregno di un profondo e sincero affetto da parte di Hayet nei confronti dei marinai, dei grandi velieri e della vita che veniva condotta a bordo.
Mi ha fatto desiderare di tornare indietro nel tempo e di imbarcarmi in un avventura intorno al globo per doppiare Capo Horn, Capo di Buona Speranza e Capo Leeuwin.
Sfortunatamente, in quanto donna, sarei stata considerata “zavorra del diavolo”, anche se Hayet spezza una lancia in favore delle mogli dei capitani imbarcate: non tutte erano solite tiranneggiare l’equipaggio e alcune erano in grado di risollevare il morale degli uomini con un bel paio di biscotti.

In quelle pagine, si trovano anche paragrafi dedicati agli appellativi che i marinai erano soliti affibbiare ai compagni meno dotati, appellativi che non sono per niente volgari come spesso si crede.
Alcuni esempi?
“Ninetta”, “bella signora col cappello”, “sfilaccia sporca” (resti di vecchia tela o fili di stoppa rimasti sul ponte che vengono raccolti dal Nostromo e rivenduti a un rigattiere) e “pattume di mola” (ciò che resta sul fondo del deposito del Nostromo e che è buono solo per essere gettato in mare).
E l’insulto peggiore sapete qual è?

“Faccia.”

Vi assicuro che non c’è alcun errore di battitura e che dopo la “F” è corretto che vi sia una “a”. Lo stesso Hayet dice che non esiste al mondo una sola persona che conosca l’origine di questo insulto, il peggiore che possa essere rivolto a un marinaio.
Faccio presente che Hayet fa riferimento alla marina francese, pertanto sono appellativi e insulti relativi agli equipaggi francesi, appunto.

Un altro paragrafo che ho trovato particolarmente interessante è stato quello sui “porci di mare”, che piangono prima di morire e di cui si mangia tutto, come per i “porci di terra”.
I “porci di mare” non sono altro che delfini.

Ancora più curiose sono le tradizioni marinare.
Dei fili di lana venivano legati intorno a polsi e caviglie per salvaguardare dai dolori reumatici e favorire la guarigione di storte e slogature.
Ai polsi indossavano dei bracciali in ottone. Quanto più il verderame si espandeva sui polsi, tanto più erano efficaci contro i “chiodi di mare”, specie di ascessi che spuntavano su polsi e gambe per lo sfregamento continuo tra la pelle e i vestiti bagnati di acqua di mare.

E poi, più di tutto, è stato sorprendente scoprire che meno della metà degli equipaggi dei grandi velieri sapeva nuotare.
Avevo sempre dato per scontato che i marinai fossero ottimi nuotatori e invece ho scoperto che non era affatto vero.

Queste sono solo alcune delle memorie che Hayet ha voluto trasmettere ai posteri per preservare una cultura, perché di questo di tratta, che sarebbe altrimenti andata perduta.

Un episodio tragicomico riportato in quelle pagine riguarda il “pennone della morte”, ma questo non ve lo racconto.

Se vi ho incuriositi almeno un pochino, vi consiglio di leggerlo, non ve ne pentirete.
La lettura scorre veloce e gli argomenti sono sempre trattati con una vena di ironia che tiene incollati alle pagine e che, non di rado, fa sorridere.

Nel caso ancora non si fosse capito, a me è piaciuto molto.

10 Comments

  1. Indubbiamente ti è piaciuto molto e si avverte… Ti confesso che hai suscitato in me curiosità e voglia di mare… Da lettrice vorace ho nel mio portfolio letterario temi marini quali “Il marinaio di Gibilterra” della Duras o “Il mare in discesa” di Battaglia.
    Del primo potrei dire che ho adorato la magia che il mare offre al protagonista di una seconda chance… lì il mare è ovunque… è come lo conosciamo: profondamente guaritore.
    Il secondo è la bella e dolce favola di Adelmo e del veliero bianco, il moto delle onde, la solitudine che traspare e il rapporto ancestrale che ci lega al mondo marino, fanno di questo libro piccolo e scorrevole una bella lettura.
    Incuriosita da frasi riportate dalla bibliografia del libro ho acquistato “La ricerca del mare” di Charles A. Borden ma l’ho trovato troppo antologico, direi per appassionati estremi di vela e di mare…
    Il tuo capitano Hayet al contrario mi sembra meno didascalico del Borden e chissà potrebbe aver trovato un’altra terraiola disposta ad ascoltarlo… 🙂

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    1. “Il mare in discesa” l’ho letto ormai diversi anni fa e ne conservo solo un vago ricordo, anche se parecchio positivo.
      Il Capitano Hayet, nel suo ironizzare sulle convinzioni dei “terraioli” a proposito degli uomini di mare, si mette al livello di chi sa poco o nulla della vita di bordo e non spende parole su tecnicismi o puntualizzazioni ma preferisce narrare aneddoti e convinzioni di chi, in mare, ci ha trascorso l’intera vita.
      Concordo sul fatto che “la ricerca del mare” di Borden sia molto antologico. Nel mio caso ha svolto la sua utilità in quanto è andato a coprire quella parte di conoscenze tecniche di cui sentivo la mancanza nella stesura del mio romanzo. Ho integrato poi la documentazione con “il manuale del velista” di Giancarlo Pedote, anche quella una lettura utile per la conoscenza del lessico di bordo o per chi desidera sperimentare la navigazione a vela. Ad altri non lo consiglierei.

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  2. Ciao Chiara! Mi fa piacere che sia successo anche a te di scoprire una perla dove ti aspettavi un macigno. Nel documentarmi per un nuovo romanzo mi è successo talvolta di imbattermi in argomenti così interessanti da farmi perdere molto più tempo del dovuto, e con gusto! 🙂

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  3. Molto interessante, ma al momento le mie scritture poggiano saldamente i piedi nell’entroterra. In compenso ho imparato un sacco di termini marinareschi leggendo Moby Dick, ma “Faccia” senza ulteriori specificazioni mi è del tutto nnuovo 🙂

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    1. Moby Dick l’ho letto al liceo, in seconda o in terza, e ricordo solo qualcosa a proposito del capitano Achab. Mi aveva affascinata e un po’ inquietata quindi, sebbene abbia scordato gran parte dei personaggi, lui mi è rimasto impresso.
      I termini marinareschi sono il mio tallone d’Achille. Ogni volta me li studio con cura e poi, giusto il tempo di scrivere il capitolo e puff! Scordati di nuovo.
      Gli unici che ricordo sono quelli che ho utilizzato in prima persona 🙂

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