Al di là dell’impossibile

Alice portava un bracciale d’oro al polso, a ricordarle il suo nome. Non sapeva se fosse davvero suo ma, quando si era risvegliata, se lo era trovato appoggiato sul petto e aveva deciso di indossarlo. Era graffiato e un po’ ammaccato ma era il suo tesoro più prezioso. Era l’ultima traccia di una vita passata che era convinta di aver vissuto e che era svanita insieme ai suoi ricordi.
Si trovava lì da novecentoquarantatre giorni. Contava a mente nella speranza di mantenersi lucida. Non aveva necessità di apporre segni. Se fosse stata privata di nuovo della memoria, i graffi sulla parete non gliel’avrebbero certo restituita. Si stiracchiò e si mise a sedere. Il pavimento era di nuovo pieno di calcinacci. Quando si era svegliata per la prima volta in quella casa diroccata, lo aveva pulito con una scopa sfilacciata. Aveva fatto la stessa cosa anche nei giorni seguenti, fino a quando si era stancata. Non aveva alcun senso mantenere pulito un pavimento che il mattino successivo sarebbe stato di nuovo in uno stato disastroso e che nessuno, oltre a lei, avrebbe potuto vedere. C’era stato un periodo, non ricordava quando, in cui aveva temuto di essere costretta a rivivere lo stesso giorno all’infinito. Per confermare o smentire i suoi timori, aveva cerchiato i calcinacci sul pavimento con un pezzo di mattone. La mattina seguente aveva ritrovato i calcinacci al loro posto, all’interno dei cerchi rossi, oltre ad almeno una cinquantina di altri pezzi di intonaco e soffitto.
Alice aveva il sonno leggero, bastava un alito di vento per svegliarla e metterla in allerta. Quei calcinacci cadevano solo quando dormiva e senza fare rumore.
Si tolse di dosso la coperta di lana grezza lacera e rabbrividì. Si alzò in piedi, sbadigliò e infilò un paio di scarpe in cuoio deformate e con i lacci consunti e prossimi alla rottura. Camminò sui pezzi di muratura che ormai dominavano il pavimento, scese lungo una scala a chiocciola in pietra e uscì.
La strada era cambiata di nuovo e, come sempre, senza che lei se ne accorgesse.
Il giorno precedente era stata invasa dalla neve, le case erano sparite e, con esse, anche ogni forma di vita vegetale. C’era stata così tanta neve che, appena Alice aveva messo un piede fuori dall’uscio, era sprofondata fino alla vita.
Quella mattina, invece, l’aria era gelida e la strada era un piccolo sentiero di terriccio che si snodava tra alberi e cespugli. Le piante avevano avviluppato le abitazioni in rovina e dai rami immensi, che delineavano una vasta volta vegetale sopra al sentiero battuto, pendevano rampicanti simili all’edera tinti di rosso, di giallo e di blu. Come sempre, il silenzio era rotto solo dal frusciare delle foglie. Mai il cinguettio di un uccello, il latrare di un cane o il verso di un qualunque altro animale.
Niente di niente.
Erano mesi che Alice non sperava più di rivedere un’altra forma di vita umana. Ogni tanto sognava una donna pallida e con lunghi capelli biondi che le parlava, forse un ricordo del suo passato, ma non riusciva mai a sentire che cosa le stesse dicendo.
Ovunque andasse, il paesaggio mutava senza preavviso e sempre mentre lei dormiva. Aveva provato a resistere per tre giorni senza chiudere occhio ma alla fine, vinta dal sonno, aveva ceduto e il mondo si era trasformato.
Ogni giorno doveva alzarsi, uscire e cercare cibo e acqua, a prescindere dalle condizioni ambientali, perché qualunque riserva immagazzinata spariva con il mutare del paesaggio.
Si strinse nel lenzuolo annodato che indossava e prese a camminare nel sentiero alla ricerca di qualcosa di commestibile. Ricordava il suo quattrocentoventiduesimo giorno come il più bello: fuori dalla porta della sua abitazione aveva trovato campi sterminati di pesche, albicocche e ciliegie mature.
Si riteneva fortunata a non aver mai mangiato nulla di mortale, non sempre era in grado di riconoscere le piante che la circondavano e non sempre c’era qualcosa da mangiare. Il giorno precedente, nella neve, si era limitata a bere quanto più possibile, per non morire disidratata.
L’assenza totale di animali non era d’aiuto. Se ne avesse avuta l’occasione, avrebbe mangiato anche delle larve, ma non c’era mai nulla di simile.
In quella specie di giungla, c’erano solo cespugli pieni di bacche di colori sgargianti che pareva volessero gridare “veleno” e sugli alberi non vedeva frutti di alcun genere.
Si chinò su un fiore color porpora con i petali arricciati e con i pistilli gialli. Era bello e aveva un profumo dolciastro. Nonostante tutto, era ancora in grado di apprezzare un fiore sbocciato solitario in mezzo al sentiero. Sollevò lo sguardo e vide, poco più avanti, la sagoma di una donna bionda.
Alice sussultò e il cuore prese a battere a un ritmo forsennato. Si mise a correre in direzione della donna «ehi!» gridò «fermati!» ma quella procedeva più spedita, sebbene stesse semplicemente camminando.
Più avanti il sentiero svoltava a sinistra e la donna sparì dalla sua visuale. Alice corse più veloce, con le gambe irrigidite per lo sforzo. Non correva da mesi, non ne aveva mai avuto bisogno. Tutto ciò che poteva arrecarle danno era il mondo stesso in cui viveva e da esso non poteva fuggire.
Alice svoltò e si arrestò di colpo sull’orlo di una roccia a strapiombo su una cascata. L’acqua scorreva impetuosa e precipitava nella terra, senza fare alcun rumore, in un buco scuro del quale era impossibile vedere il fondo.
La donna era sparita nel nulla.
Ansimando per la corsa, Alice scosse il capo e si sedette sulla roccia con le gambe a penzoloni. Si passò una mano tra i capelli lunghi e nodosi. Non poteva credere che quella donna fosse sparita così come era comparsa. Non voleva credere che si fosse trattato di un’allucinazione. Era impossibile che, oltre a lei, non ci fosse nessun altro. Più volte si era messa alla ricerca disperata di un’altra persona nella sua stessa situazione ma, ogni volta, il sonno aveva avuto la meglio su di lei e, al risveglio, si era ritrovata nella sua abitazione, al punto di partenza.
Alice si riscosse, la priorità era sopravvivere fino al giorno successivo.
Avrebbe dovuto raggiungere un punto in cui le fosse possibile bere l’acqua della cascata. Se avesse lasciato il sentiero e si fosse addentrata nella boscaglia proseguendo verso destra, avrebbe trovato un modo per raggiungere la sorgente della cascata.
Si alzò e si inoltrò nella giungla. Alcuni rovi le graffiavano i polpacci e le si impigliavano nel lenzuolo, rallentandole il passo. Tra cespugli e foglie grandi quanto lei, non vedeva l’andamento del terreno ma, a giudicare dallo sforzo che le sue gambe erano costrette a fare, si stava muovendo in salita.
Non sapeva a che distanza fosse dalla cascata, dal momento che l’acqua non produceva alcun rumore, e continuò ad avanzare nell’ombra dei rampicanti e dei grandi alberi sopra alla sua testa. A un tratto, il suo piede destro affondò in un ruscelletto di acqua fredda e limpida. Lo seguì in direzione della corrente. Il letto del ruscello si allargava e, arrivato a ridosso di due rocce levigate, si gettava nel vuoto. Alice si sporse e vide di nuovo la donna dai capelli biondi fluttuare nell’aria, tra i colori dell’arcobaleno, sotto all’unico raggio di sole che filtrava attraverso la vegetazione.
«Ehi! Per favore, guardami» non era umana, ma ad Alice non importava «ti prego» la implorò «non siamo sole, parlami, dimmi qualcosa!»
La donna alzò il volto. Era il volto che Alice sognava di notte.
«Sì, sì, sono qui!» In quel momento, il raggio di sole si affievolì, l’arcobaleno scomparve e, con esso, anche la sagoma della donna. «No!» Alice batté un pugno sulla superficie trasparente dell’acqua e rimase in attesa con lo sguardo concentrato sul punto in cui la donna era svanita.
Quando si fu arresa al fatto che la donna bionda non sarebbe ricomparsa, si inginocchiò sulla sponda di roccia e strinse un lembo del lenzuolo «perché?» contrasse la mascella e si asciugò una lacrima «non è giusto.»
Rimase a piangere in silenzio fino a che le forze glielo consentirono, poi si stese a terra e attese il calare della notte.
La giungla si era fatta buia, che ci fosse o meno la luna in cielo non faceva alcuna differenza.
Con il solo tatto a farle da guida, Alice immerse le mani nell’acqua fredda e bevve fino a sentire male alla pancia. Doveva sempre bere più del necessario, non sapendo dove si sarebbe ritrovata il giorno seguente. Chiuse gli occhi e si addormentò.
La mattina successiva, Alice si svegliò. Vide il solito soffitto scrostato e il solito pavimento pieno di calcinacci. Si tolse di dosso la coperta, infilò le scarpe e scese le scale. Non guardava mai fuori dalla finestra, preferiva conservare la speranza che si trattasse di una buona giornata fino all’ultimo istante.
Uscì e rimase abbagliata dal sole che rifletteva sul suolo bianco e arido dal quale spuntavano solo alcuni rametti secchi. Tutto intorno a lei era un’immensa distesa di nulla. Un suolo crepato dalla siccità e un orizzonte spezzato da ruderi di mattoni e rocce grandi quanto l’abitazione alle sue spalle.
In lontananza, ad Alice parve di scorgere una figura umana. Si portò una mano alla fronte, a farle da visiera protettiva contro il sole accecante, e guardò meglio. Era la donna bionda, la donna che aveva visto il giorno precedente alla cascata!
Alice camminò verso di lei, tremante per l’emozione. In uno scenario simile, non avrebbe potuto perderla di vista. Arrivò alle spalle della donna «ehm… ciao» disse piano, per non spaventarla.
La donna si voltò, aveva il viso pallido come in sogno.
Alice si presentò, con gli occhi pieni di lacrime e un sorriso che non poteva trattenere. La donna le fece cenno di seguirla e Alice, senza esitazione, le stette dietro. Camminava a poca distanza dalla donna, sforzandosi di non fare caso al caldo soffocante e al sole sempre più alto nel cielo che le bruciava sulla pelle screpolata. Quel giorno non avrebbe trovato né cibo né acqua ma non le importava.
La donna la condusse sull’orlo di un precipizio. Alice guardò in basso, dove una distesa di rocce acuminate si estendeva a perdita d’occhio. La donna fece un passo verso il vuoto, Alice si protese ad afferrarle un braccio ma tra le dita sentì solo aria calda, mentre quella proseguiva la sua camminata sospesa. Alice si era irrigidita, incredula e ancora spaventata per il timore che la donna volesse suicidarsi.
A un tratto, la donna si fermò, sospesa nel vuoto come il giorno precedente. Si voltò verso di lei, le sorrise e, con una mano, le fece cenno di avanzare.
«Non posso, io non so volare» Alice arretrò di un passo, ripensando con orrore alle punte di roccia sottostanti.
La donna era ferma, con la mano che ancora la invitava a proseguire.
Alice guardò di nuovo verso il basso. Le punte di roccia non c’erano più, inghiottite da un buio profondo. Dall’oscurità, si generò una luce bianca che prese vigore e assunse la forma di una spirale. Nel vuoto sotto di sé, attorno alla spirale di luce biancastra, Alice vide comparire migliaia di puntini luminosi, tanti quante le stelle in cielo.
Rivolse un ultimo sguardo alla donna e compì un passo verso il vuoto.

2 Comments

  1. Ciao Chiara,
    ed ecco spuntare il frutto della tua passione per il distopico 😉
    Bello, il tuo racconto mi è piaciuto… l’atmosfera del post apocalittico si respira appieno… desolante, solitario, devastato… addolcito solo da quell’unica presenza umana (forse)…
    E poi, dopo tanta miseria e infruttifero girare intorno… ecco apparire uno spunto di spiritualità simil-nipponica:una presenza eterea che porta sollievo e redenzione, una speranza di un nuovo seppur diverso inizio… che mi ha ricordato che anche tu sei una lettrice di manga e spettatrice di anime.
    Brava!
    Un altro genere, un’altra scorrevole lettura.
    Continua…
    Buona settimana 🙂

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    1. Ciao Mary,
      sono felice che il mio racconto ti sia piaciuto. Immagino che la tua interpretazione sia la più ottimista che si possa dare a un finale “aperto” come lo è quello del racconto.
      Grazie della lettura e per avermi comunicato un tuo apprezzamento,
      Buona settimana 🙂

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